Erano le cinque del pomeriggio di un afosa giornata di agosto, il mio primo viaggio in USA.
Stavo seduto su di un muretto con un hot-dog in una mano, ed un cartone di uno strano soft drink al lampone, nell’altra. Una piccola orchestra di ottoni, dell’esercito della salvezza, raccoglieva fondi suonando musiche di Gerswin ed io, piccolo figlio della montagna veneta, appena arrivato nella Grande Mela, curioso di tutto come sono, stavo attento ad ascoltare e soprattutto ad osservare la grande città in tutto il suo strano, caotico movimento.
La musica mi piaceva, ma ancor di più mi piaceva guardare la gente. Un tipo di colore, vestito con un frac verde pisello, quasi mi investì, correndo sul marciapiede a cavallo di una bicicletta da corsa. Strano ma non troppo. La cosa che più mi colpì erano maschera e boccaglio che indossava.
Un sub – ciclista vestito da sera, magari gay o attore di off broadway che sopravviveva nella metropoli più cool del momento, (INIZIO ANNI ’80), inalando boccate di ossigeno da una bombola che portava a tracolla. Lo stupore era stato appena stemperato da grasse battute in dialetto veneto, quando mi si parò davanti all’improvviso un signore molto elegante, impeccabile nel suo cappotto di lana blu. Non fosse che eravamo quasi a ferragosto, sarebbe stato ineccepibile. Il classico WASP stile Wall Street , che tornava nella sua lussuosa suite, dopo la giornata in borsa.
Camminava in modo molto compassato, e senza dar segno alcuno di insicurezza o d’impaccio.
Improvvisamente attraversò la strada e seguito dal mio sguardo incuriosito sollevò il coperchio di un immenso cassonetto delle immondizie. Si guardò attorno furtivo, e si tuffò all’interno. La mia bevanda rotolò sul selciato, la bocca aperta, l’hot-dog sospeso nell’aria. Bofonchiai qualcosa ai miei compagni di lavoro, molto più interessati al momento ad una splendida mulatta, che ritrovammo alcune volte in quel pomeriggio sulla nostra traiettoria. Scambiai con lei perfino qualche frase, quando visto il mio sguardo interessato, aveva fatto fermare un taxi ed era scesa con l’incedere di una vera dea, ancheggiando voluttuosa nella mia direzione. La mia pressione salì di molto, poi con l’aiuto di Luca, risposi negativamente alle sue profferte. Mi chiese infatti se avevo soldi da spendere per divertirmi con lei quella notte ( eravamo ormai a sera davanti all’entrata dell’Hilton). Agitò allora con stizza, il bel abitino di popeline e risalì sul taxi insultandomi in puro slang del Queens.( E non sarebbe stata la sola quel giorno). Il signore compassato, vestito in splendido cappotto invernale, nel frattempo, aveva fatto la spesa e con alcune borse di nylon colme di chissà che, si avviò tranquillo lungo il marciapiede. Io continuavo a seguirlo con lo sguardo. Arrivò davanti ad un bidone grande come un uomo, si guardò in giro, posò le borse e rovesciò il bidone metallico con un certo fragore. Il frastuono disturbò un poco l’orchestra, che dopo un attimo di pausa riprese con più vigore la sua sonata. Nel mentre, l’uomo selezionò altre cose, poi con molta calma, ripulì tutto, rimettendo in piedi il contenitore , raccolse le sue masserizie e si mise in cammino. Fu quello il momento in cui si accorse di me. Mi guardò con uno sguardo irritato, poi con piglio deciso e con un moto di stizza s’incamminò lungo la via scomparendo per sempre al mio sguardo. Avevo ventisei anni allora ed il mondo mi apparteneva. Ero come si suole dire in carriera, ero molto ambizioso ed avevo già una grossa posizione. Quello che avevo visto mi sembrava una cosa incredibile, solo un’americanata.
Il mio amico Jeff , la sera a cena, mi spiegò che invece era una cosa normale, e che probabilmente quel signore era sicuramente un home-less, ma che nell’inverno precedente poteva davvero essere stato un famoso broker di Wall Street, al quale erano andati male gli affari. Talmente male che gli erano rimasti solo gli abiti che indossava quel giorno. Blocco totale dei beni e delle carte di credito. Chiusura e sequestro immediato dell’appartamento sulla Quinta o chissà dove. Pensai con sgomento in quel attimo al tragico destino dell’uomo in blu, ma pensai anche, che a me non sarebbe mai potuto succedere . Vi dirò che nel momento peggiore della mia vita, ho rivisto nella mia mente spesso questo episodio. Qualche problema l’ho avuto anch’io, ma siamo in Italia, e forse io mi sono saputo adattare e riciclare in modo più che positivo, ma quel bel signore di NYC è, e sempre sarà per me di monito ogni volta che vedo le mie certezze vacillare.
E se devo proprio dirlo, mi ha dato un grande insegnamento. Mi ha aiutato a salvare la speranza, e credetemi è stata una lezione che mi è servita molto, soprattutto quando il fato ha voluto che tutte le mie certezze, costruite negli anni, si disgregassero una dopo l’altra, lasciandomi solo con il vento in faccia.
Jeff, quella sera, ci spiegò che la Grande Mela rappresentava per lui, uomo del Middle West, trapiantato in Rhode Island, lo stesso che per noi. New York allora era davvero il centro del mondo.
Pensate, tanto per farvi un piccolo esempio, che i dandies italiani andavano li solamente per poter passare una serata allo Xennon, o per fare incetta di magliette firmate Jimbo. Polo di pessima qualità ma che con il logo di Jimmy Connors, tennista del momento, venivano vendute al doppio delle mitiche Lacoste
Cosi per dimostrare che un commesso viaggiatore che arrivava nella Grande Mela, era “… come un mussulmano alla Mecca”, (parole sue!), ci portò nel dopo cena, quasi fosse un obbligo, ( o come detto un pellegrinaggio), a Times Square. Per chi non lo sapesse, (invero in pochi), quella piazza, o meglio quel quartiere, era il centro del divertimento, ed ai teatri dove si proponevano i musicals di successo, si susseguivano i ben più proletari bordelli, ed il piatto forte, allora assoluta novità, erano i locali di Lap Dance. Ebbene, Jeff, con fare esperto, contrattò con svariati ruffiani, fino a scegliere un locale al secondo piano di un palazzo della via principale. Salimmo scale polverose, che sapevano di muffa e di alcool, di fumo e di orina, mal illuminate e con una patina scivolosa, che rammentava,se ce ne fosse bisogno, che acqua e spazzettone erano stati visti in quei paraggi hai tempi postumi del diluvio universale o forse quando un tale di nome Peter Stuyvesant, ” very dutch man”, aveva messo la bandiera olandese per la prima volta in quei paraggi, insieme ai Knickerbockers stesi ad asciugare dopo il lungo viaggio senza scalo, bada ben, senza essersi mai cambiato le braghe in questione, dal porto lontano di Rotterdam.
L’entrata era un dedalo di piccoli corridoi con le pareti sozze di legno. Una porticina, coperta da una spessa tenda di panno, introduceva al “Teatro”. Alcune passerelle si elevavano di un metro almeno dal pavimento. Luci fredde illuminavano dei pali d’acciaio cromato e sedie di ferro poste intorno. Più in là una piccola platea di poltroncine macchiate, si elevava in tre o quattro file. Jeff allungò un paio di banconote ad un orco che sembrava un medio massimo suonato, e questi ci fece accomodare sulla seconda fila, posta giusto all’altezza del palco. Si abbassarono le luci ed uscì una ragazza, che con fare nervoso, mise in mostra un paio di enormi tette cadenti. Vedendo che nessuno si interessava a lei, si avvicinò ad un grassone dalla lunga barba che cominciò con gesti precisi e misurati, a coprirla di banconote da un dollaro. Le arrotolava piano, poi con la punta della barba guidata da quelle sue untuose e grasse mani, la andava ad accarezzare ora sui seni, ora su altre parti anatomiche, poi con sospiri che parevano rantoli, infilava le banconote in quei pochi brandelli di tessuto che ancora coprivano quel corpo flaccido. Qualcuno beveva, altri ridevano ammiccando al ciccione, mentre “l’artista”, con fare mellifluo e gorgheggi che parevano rutti, sottolineava le varie fasi delle operazioni. La scena si ripetè con almeno altre due ragazze, ma di eccitante, sconvolgente o trasgressivo non c’era proprio nulla, ed io cedetti alla stanchezza e senza pensarci troppo mi addormentai. La gomitata nelle costole arrivò improvvisa a svegliarmi. Fu Jeff a rifilarmela. Mi svegliai confuso, e lo spettacolo che mi si parò davanti fu davvero indimenticabile. Vidi per prime due scarpe con il tacco alto, che fasciavano caviglie robuste. Risalii con lo sguardo due lunghe gambe muscolose di carnagione ambrata, fino a rimbalzare sulle sedia, quando mi ritrovai faccia a faccia con “l’origine del Mondo”. Un triangolo di ricci dorati coprivano appena un sesso femminile di grandi dimensione. Al di sopra di quella foresta posta a cornice delle grandi labbra s’ergeva imperiosa una donna molto bella, molto muscolosa e molto arrabbiata. Il fatto che uno spettatore della prima fila si addormentasse durante lo spettacolo della star l’aveva fatta imbufalire. Non capivo bene cosa dicesse, ma sicuramente m’insultava. Poi mi dissero che voleva sapere perché dormissi durante il suo spettacolo, che non era mai successo, che per una stella come lei questo era un affronto, una mancanza di rispetto.
Il pubblico cominciò a rumoreggiare e partirono un paio di fischi. Questa signora inviperita raccolse alcune cose dalla passerella e urlando ritornò dietro le quinte.
Jeff mi fece alzare, ed un paio di energumeni ci accompagnarono all’uscita spingendoci in malo modo giù dalle lerce scale. Arrivati in strada l’amico americano cominciò ad urlare improperi nei miei confronti. Accesi una sigaretta, e guardandolo in tralice gli dissi in pessimo inglese che le giovani slovene che avevo visto dieci anni prima in un locale di Velenjie o di Ljubljana, se le pappavano tutte quelle baldracche scadenti e che lo spettacolo, da lui, tanto decantato mi aveva davvero annoiato. In realtà non dormivo da quarantotto ore, e la fatica ed il caldo afoso di quel locale avevano avuto la meglio. Jeff, non mi parlò più fino al giorno della mia partenza, ma lo sentii spesso nel lungo viaggio da New York a Providence, (su di una vecchia giardinetta dalle fiancate di legno, alla folle velocità di trentacinque miglia all’ora), chiedere all’autista, un ragazzo di colore con un rastrello piantato nel cespuglio che aveva in testa, se per caso sapeva dov’era Ljubljana. Questi gli rispose che avevamo appena passato New Haven, ma che forse questa Ljubljana era su nel Maine, ma non ne era sicuro, di certo, se giravamo a sinistra saremo arrivati a Syracuse.
E non era Sicilia.
Arrivò il giorno dei commiati e Jeff, mi salutò freddamente, dicendomi che a settembre sarebbe venuto in Italia, e che si aspettava da me un invitò in uno di quei posti che avevo menzionato. Me la cavai egregiamente rispondendogli che quelli di Belgrado, essendo lui americano, non lo avrebbero mai fatto attraversare la frontiera, perché Ljubljana allora, era ancora Jugoslavia, e lì comandavano i comunisti, proprio quelli che mangiavano i bambini e bruciavano gli Yankees. Mi guardò basito e stirando la sua orrenda giacca di panno a quadri rossi e verdi si allontanò ciondolando il capo e parlando fitto fitto con il suo assistente, che di nome faceva Richard, per noi solo Big Dick, proprio come il suo capo, che per chi non fosse aduso agli slang, si potrebbe tradurre semplicemente come:
“ cazzone”. So long America!
G.P.