Appesi a un filo

Estate, le giornate sono lunghe e la sera il caldo dà un po’ di requie. Ore 15.30 del pomeriggio: l’allora mio moroso (ora nonostante tutto marito) mi dice “Dai, mi è venuta in mente una cosa bellissima da fare, ci divertiamo un sacco, andiamo a Rocca Pendice a fare una calata in corda doppia!”. Sarà stato il caldo, sarà stato l’amore, ho accettato. Bello, bello, si va a piedi fino a uno strapiombo, poi ci si mette gli imbraghi, ci si lega per bene e si scende giù per decine di metri nell’aria fresca del tardo pomeriggio e con un bel panorama dei Colli Euganei.

Peccato che il punto da cui scendere non era quello da cui stavamo scendendo.

Peccato che era pieno di cespugli e che la corda, che bastava appena appena per arrivare in fondo (dal punto giusto erano molti meno metri di dislivello…) decide a un certo punto che è più divertente annodarsi a un ramo.

E io, che soffro di vertigini, mi trovo bloccata nel punto che doveva essere il più bello, appesa per aria con solo la corda a cui appigliarmi. Terrore!

Corda irrecuperabile.

Cellulari non proprio pratici da raggiungere.

Ipotesi fantasiose dell’impavido arrampicatore esperto (?) di mollarmi lì e tentare di andarsene a snodare la corda.

Poi il miracolo: un gruppetto di tre arrampicatori che stava tornandosene a casa passa esattamente sotto di noi.

Si organizzano e, dopo aver calato me, recuperano la corda annodata al ramo. Do il mio meglio in imprecazioni contro il moroso che si deprime al massimo.

La ragazza del gruppo mi bada un po’ e rassicura il moroso che “Tranquillo, è normale, poi si calma”.

Poi siamo tornati a casa. Mi sono calmata. Ci siamo sposati.

Ma non abbiamo più arrampicato se non con me salda a terra a tenere le corde in sicurezza.

L.C.

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