L’ACQUA DI VICINO

Mio nonno Carlo da giovane era stato “proto”, lavorava nella Società Cooperativa Tipografica di Padova, per il suo grande impegno nel lavoro, gli fu data la medaglia d’oro. Aveva contratto da giovane, a causa dei prodotti tossici usati per la stampa, una bruttissima asma . Io da piccola mi divertivo ad imitare il suo modo di respirare e mia mamma o mia nonna, a scelta, me le suonavano. Mio nonno, me lo ricordo sempre in ciabatte, con il golfino e il bastone. Attaccato al muro, di lato alla piccola credenzina della cucina, aveva uno specchietto, davanti al quale la mattina si metteva la brillantina sui capelli, a me piaceva molto guardare il nonno. In particolar modo quando si beveva l’ ovetto fresco, aveva una tecnica perfetta, il buchetto, il dito che tappava e via giù come una wodka. Una volta chiesi alla mamma di farmi provare quella delizia, mi ricordo che l’ovetto entrò in me con la stessa velocità con la quale uscì. Mio nonno leggeva sempre il giornale, che allora mi sembrava grandissimo. Le mansioni che erano di priorità del nonno erano: l’accensione della stufa a legna, la preparazione delle palle di cartapesta da bruciare nella stufa, i ritagli di giornale da usare come carta igienica in bagno, la pulizia del canarino, la carica dell’orologio a pendolo, più mille altre cosette che si trovava da fare. A proposito delle palle di cartapesta, veniva messa a macerare la carta in un catino sotto la credenza ed io avevo il divieto assoluto di toccare, allora passavo spesso una mezzoretta distesa a terra, a spiare là sotto, immaginando chissà com’era la visione del catino da vicino. Naturalmente tutti avevano un grande rispetto del nonno, che chiamavamo “el vecio”.  Qualche volta, se discuteva con mia nonna,  ero subito allontanata con una scusa. Il momento in cui ero da sola con il nonno era quando facevamo merenda, ci siedevamo a tavola, e lui mi faceva il panino con il prosciutto o con il formaggio, anche se il mio preferito era con il burro e lo zucchero. Il nonno teneva la contabilità della casa, era molto serio quando lo faceva. Ma la cosa che faceva imbestialire di più mia nonna era quando preparava l’ acqua frizzante. Allora, l’acqua frizzante, per lo più si faceva in casa. Ve n’erano due marche, Alberani e quella che usavamo noi. Questa, in casa mia, venne sempre chiamata in dialetto,” acqua de visin,” quando da noi “visin” vuol dire vicino, ecco io pensavo fosse ” l’acqua di vicino”. Erano in vendita delle scatolette contenenti delle bustine di due colori piegate come le schede elettorali, che bisognava miscelare. La bottiglia era di vetro grosso verde, con il tappo tenuto fermo dal ferretto. L’alchimia si svolgeva regolarmente poco prima del pranzo, il nonno cominciava a scartare le bustine, le miscelava, le metteva nella bottiglia, la tappava, la capovolgeva e diceva:” Femene fora”. Voleva dire che io la mamma e la nonna dovevamo uscire dalla cucina, finchè lui non ci richiamava. Questa indiscutibile precauzione veniva presa perché era stato letto nel Radio Corriere TV che una volta una bottiglia era scoppiata in faccia ad una famiglia intera. Questo era il momento più delicato nella relazione tra i nonni, perché ogni volta che ci buttava fuori, le pentole sul fuoco venivano abbandonate a loro stesse, con conseguenze alle volte sgradevoli. Era lì, dietro la porta della cucina, che mia nonna ripeteva, insieme alle preghiere delle sera, le sole frasi rituali della giornata:” Ah vecio quante ostie me feto tirare. Ma quante, Dio te fulmina.”

D.R.C.

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