Avevo la pasta sul fuoco in cucina, quando squillò il telefono. Alla radio davano la Gazza Ladra di
Rossini, il sottofondo ideale per prepararsi un piatto di spaghetti, ed io l’accompagnavo fischiando.
Fui tentato di non rispondere, gli spaghetti erano quasi cotti, e Claudio Abbado stava giusto per portare l’orchestra filarmonica di Londra all’apice dell’intensità’ drammatica. Pazienza, mi rassegnai ad abbassare il fuoco, andai nel soggiorno e sollevai il ricevitore.
Mentre l’alzavo, pensai che nessuno poteva interrompere, e per nessun motivo, quel momento d’intimità tanto atteso.
Risposi con un suono gutturale simulando un guasto. Schiacciai il pulsante per interrompere la linea, e lasciai la cornetta ciondolante lungo il muro. Tornai con soddisfazione alla mia pasta, sollevai la fiamma ed attesi fremente che rincominciasse il bollore. Il coperchio, cominciò a danzare nel momento in cui l’orchestra arrivava all’apice del crescendo, poi piano, piano, si dissolse, ed io lo tolsi, assaggiando uno spago. Nella padella a fianco, un sugo regale stava borbottando suoni, che potevano competere col maestro di Pesaro. Nel profondo Sud, dove se ne intendono davvero, chiamano con sommo riguardo questo momento “La Quacchéra Napoletana”. Una vera sinfonia di suoni gradualmente ritmati , “Quach…Quach…Quach…..”.
Osservo ipnotizzato le bolle che lentamente risalgono dal fondo, le guardo implodere, mentre emergono dal sapido magma. Gli interpreti perfetti per la mia serata di fuga.
Mazzancolle, zucchine affettate a julienne e capocollo tagliato sottile, si fondevano in unico effluvio con pomodorini ramati, maturi al punto giusto. Il profumo della cipolla di fondo era appena sfumato. L’odorosa mistura, si spandeva nell’aria in spirali voluttuose, ed il mestolo di legno, girando al ritmo della Gazza Ladra, orchestrava il tutto con maestria, esaltando per primo il sapore del mare, poi quello dell’orto, ed infine si stordiva con il gusto del maiale, che con quel suo tocco greve, invece di acuire il contrasto tra i sapori, li riuniva in un armonico insieme. Il mestolo continuava a roteare amalgamando gli ingredienti. Il ritmico arcuare del polso, faceva innalzare in toni acuti quella sonata di profumi e colori, conducendo i sensi verso il momento magico in cui il gusto avrebbe avuto il predominio. L’armonia della musica di Rossini ed i profumi della mia cucina, rendevano il momento totalmente appagante.
Un ultimo assaggio per capire il grado di cottura, perché la pasta va assaggiata, ed il capiente elmo dei miei giochi di bambino, ritornò ad essere l’oggetto utile, per cui era stato ideato. Ondate di vapore si espansero dal lavello fino ad imperlare le ante dei mobili ed i vetri. La luce si scompose in densi fasci d’ovatta, che un flou più flou di così si poteva trovare solo nelle foto di tale Helmut Newton. Poi, in un fruscio d’umori, avvenne lo sposalizio. Nella solennità del momento, vapori si fusero a vapori, e la spadellata finale innalzò la colonna di note in un crescendo, che poco aveva da invidiare a quello udito prima.
Impiattai con abbondanza, poi con sommo disprezzo dei grandi gourmet, irrorai di grana grattugiato, quella tavolozza superba.
Ammirai l’opera, e senza staccare lo sguardo dal caleidoscopio di colori, aprii il grande frigorifero blu royal, con la portiera uguale a quella delle Cadillac del ’57, ed estrassi, afferrandola per il lungo collo, una chiara ampolla di vetro fine, dove il Bianchello del Metauro era pronto a salire sul proscenio, secco e fresco alla giusta gradazione. Giusto quel tanto per potersi meritare l’ultimo scrosciante applauso.
Lunghe gocce di rugiada imperlarono il vetro. Fu allora che la mia mano inumidita, rischiò di rovinare la magia del momento. Con un’azione maldestra, fece scivolare sull’aristocratico collo, il grosso “Tirabouchòn”, smaltato rosso vermiglio. Questi si fermò con un tonfo sul piano di marmo lucido. L’opera d’arte, invece, che un maestro di Murano aveva carpito nelle forme, ad una natura morta di De Chirico, roteò nell’aria, piombando a volo libero verso il pavimento.
Sembrava attratta irresistibilmente dalle mattonelle smaltate alla provenzale. Salvai il prezioso involucro, ed il nettare che esso conteneva, con una presa degna di un “catcher“ della Premiére League.
Mi asciugai con dovizia le mani, e la fronte, vistosamente coperta di un manto perlato.
Stappai con decisione. PAAFFF! Inspirai profondamente l’aroma del fresco vino marchigiano, e ne versai fino a riempirlo, (e “perdio” non si dovrebbe fare), un flùte di cristallo. Fino al bordo!
Assaporai il vino ed il cibo, e gustai con somma soddisfazione quei piccoli capolavori.
Gli occhi socchiusi, in un momento di beatitudine, vagavano per la stanza, inseguendo improbabili pensieri, finché in un momento di lucida realtà, non si posarono su quel filo nero ciondolante, che oscillava piano, spinto dalla leggera brezza serale.
Osservai per qualche istante quello strano pendolo di bachelite, figlio di Bell o di Meucci, (dipende dal grado di sciovinismo che uno si ritrova), e lo vidi finalmente, inerme e muto. Soprattutto inoffensivo. Il piacere che provai allora, fu superiore ai tanti, gustati quella sera, e pensai, sazio, che andava proprio bene così.
Dormii profondamente quella notte. Al mattino, il pendolo nero era ancora lì a fissarmi con la sua lucida impotenza. Lo guardai incredulo, ed allo stesso tempo orgoglioso della piccola rivincita
che mi ero preso su quelli di fuori, mentre una tazza di caffè nero, mi snebbiava la mente, dai fumi arcani del vino leggero, che tanto leggero non era. Solo dopo la seconda tazza, mi decisi, e sollevai la cornetta fino alla forca basculante. Ricominciò quasi subito a vomitare il suo stramaledettissimo suono, ma ormai era giorno e potevo concedermi nuovamente alla consueta schiavitù quotidiana. Il collegamento con il potere era riattivato. La notte di libertà estinta. L’eternauta era nuovamente controllabile e perseguibile. Abbassai il capo, e così com’ero m’infilai sotto alla doccia.
G.P.