Dopo tanti anni di “smorosamento”, finalmente riuscimmo ad estorcere il permesso di andare a fare una vacanza insieme in un’isola greca.
Il permesso era stato concesso solo a due condizioni:
– dovevamo portarci dietro il fratello della “morosa”
– dovevamo andare in una casa vicina a quella affittata da amici del mio futuro suocero.
Così eravamo partiti dopo avere fatto (per sicurezza) le pubblicazioni di nozze un venerdì 17 agosto, su una nuovissima Peugeot 104, uscita da un mese dalla concessionaria.
Saltando a piè pari il racconto delle 24 ore di viaggio ininterrotto attraverso la Yugoslavia e tutta la Grecia settentrionale, arrivammo a destinazione.
Al nostro arrivo allo sbarco dal traghetto, metà degli abitanti dell’isola ci conosceva già, anche senza averci mai visti. L’altra metà, l’avremmo conosciuta nel giro di pochi giorni.
Eravamo coccolati dai padroni di casa greci, dagli amici di mio suocero, dal resto dei paesani. In poche parole eravamo sotto strettissima sorveglianza (e non sapevamo neanche quanto!).
Sembrava che ci fosse stato un passaparola tra tutti: “Non lasciateli MAI da soli”.
Ad ogni passo ci ritrovavamo l’amico Yorgo che passava per caso da quelle parti, subito dopo il sovrintendente archeologo che, casualmente, faceva la nostra stessa strada; per farla breve, non riuscivamo ad avere un momento per stare in intimità.
Quella mattina, invece di scendere in spiaggia, decidemmo a sorpresa di fare un giro in macchina e, appena fatta la colazione, demmo l’annuncio: “Stamattina andiamo a fare un giro a L…”
Costernazione dipinta sul viso di tutti ma, visto che il turista ha sempre ragione, ci venne permesso di andare.
Prima di salire in macchina fummo bloccati dalla strega del paese, sempre vestita di nero, che a tutti i costi voleva leggere le nostre mani, predicendoci le difficoltà del viaggio (non sapevamo ancora quanto avesse ragione!). Dopo dieci minuti di farfugliamenti (non diceva una sola parola di italiano e noi non conoscevamo una sola parola di greco), ci lasciò andare.
Dovete sapere che l’isola su cui ci trovavamo è di forma praticamente rotonda, con una sola strada di 40 chilometri che unisce tutti i paesi costieri. Da uno di questi, parte una sola strada, come il raggio di una ruota, che porta al paese più grosso, arroccato in cima a una montagna, nel centro dell’isola.
Non riuscimmo a fare neanche cinque chilometri che ci trovammo la strada sbarrata da una vecchietta (mai vista) con una capra bianca al guinzaglio (si fa per dire) e due grosse borse piene di galline. Sembrava proprio che aspettasse noi. Infatti, appena fermai l’auto mi interpellò con voce autoritaria: “Tu … BiCo? …” e alla mia risposta affermativa, aprì lo sportello posteriore e (ORRORE!) spinse dentro la capra, buttò le borse con le galline nel bagagliaio, si accomodò insieme alla capra e mi disse il nome del paesotto in montagna, intendendo che dovevamo portarla fin lassù. Come se fosse la cosa più naturale del mondo bloccare le persone e usarle come un taxi.
Vista l’educazione ricevuta e il fatto che questo strano personaggio mi conoscesse così bene, acconsentii ad accompagnarla.
Così, tra i belati della capra, che fortunatamente non soffriva il mal d’auto, il chiocciare delle galline che si erano sparse per tutta la macchina passeggiando sulla vecchia, sulla morosa e su di me, ed il chiacchiericcio della vecchietta che parlava come una mitragliatrice, arrivammo, non senza qualche difficoltà dovuta a somari stracarichi di fascine, sacchi ecc. che stavano sempre in mezzo alla strada, fino ad una stamberga fuori del paese (naturalmente dopo averlo attraversato TUTTO, sotto gli sguardi degli abitanti che ci osservavano incuriositi). Scaricammo la capra, rincorremmo le galline per chiuderle nel pollaio e fummo pronti per partire (sic!). Fermi tutti! Non si poteva andare via se non dopo aver preso il caffè. Alla greca, naturalmente.
Per i greci, il caffè non è come da noi che vai al bar, ordini un caffè, in trenta secondi te lo danno, lo bevi, paghi e sei già per la strada. NO! Il caffè è un rito, bisogna misurare le tazzine, mettere l’acqua in un orribile bricco, aggiungere la polvere di caffè, lo zucchero e lasciare bollire per un bel po’ di tempo.
Quando il caffè è pronto, (una fanghiglia raccapricciante da vedere) viene versato con molta cura e maestria nelle tazze … poi va lasciato riposare per far depositare la polvere sul fondo e, contemporaneamente, far abbassare la temperatura della infame brodaglia ad un livello accettabile senza provocare ustioni mortali al palato.
Una volta sorseggiato centellinandolo goccia a goccia (mentre scrivo, a quel terribile ricordo mi si rizzano ancora i peli degli avambracci, avete presente i filtri magici della fattucchiera Nocciola?) e facendo una piacevole conversazione con la padrona di casa (noi, in italiano, lei in greco) arriva il bello: la lettura dei fondi … che richiede non meno di un’ora a testa.
Per farla breve, dopo aver sussurrato frasi sconclusionate all’indirizzo delle tazzine, la vecchietta, osservandole attentamente, ci predisse (lo abbiamo saputo dopo) una vita fatta di alti e bassi, di tremende sventure e di grandi fortune, gioie, dolori, lavoro (ma va’?) e, dulcis in fundo, la nascita di una bambina.
Finalmente, visto che ormai si era fatto tardi, ci lasciò partire.
Stremati da quell’avventura e passata la voglia di andare in giro, decidemmo di tornare a casa.
Sulla via del ritorno, con i finestrini spalancati per via della puzza di capra e di escrementi di gallina, senza più alcun desiderio di starcene soli, giurammo che non saremmo più andati in giro per il resto della vacanza.
Nonostante in quella parte di isola non ci fosse il telefono, al nostro arrivo TUTTI sapevano già della nostra imprevista vicissitudine e ci venne fornita una testuale traduzione delle predizioni della vecchietta della capra.
Sul fatto della nascita di una bambina, ci mettemmo a ridere, visto che non pensavamo affatto ad avere figli.
Poi, mentre brontolando cercavamo di dare una parvenza di pulizia al bagagliaio della macchina, tra le penne perse dalle galline, fecero capolino tre uova freschissime.
“Almeno le pennute ci hanno pagato il viaggio con queste uova!”, sospirammo con enfasi bevendole. Alle nostre spalle, la padrona di casa, che conosceva un po’ di italiano, raccolse il terzo uovo, se lo bevve e, battendoci sulle spalle esclamò: “La Grecia è così, BiCo!”
Bi.Co.
PS. Forse non ci crederete, ma dopo quasi undici anni da quella vacanza, quando non ci pensavamo più, è nata veramente una bambina … il nostro gioiello di famiglia che adesso ha diciotto anni e lietamente ci ravviva la vita. (rompe, … rompe, … rompe, voi non sapete quanto!).